Come si studia e cosa si impara

Laura Romano

La verità ha un linguaggio semplice

Euripide

 

La ragione per cui l’insegnamento Sumarah è estremamente accessibile e per così dire ‘aperto a tutti’ dipende dalla convinzione che la verità possa essere recepita in gradi diversi. I livelli di comprensione sono infatti infiniti e non vi sono segreti per il semplice motivo che ciò che è segreto in un determinato momento o per una certa persona non verrà comunque rivelato o semplicemente non sarà compreso.

Vorrei riportare un intervista fattami alcuni anni fa da due ragazzi danesi assolutamente digiuni di meditazione, ma estremamente aperti e sinceramente dediti alla ricerca di se stessi e del significato della loro vita.

D. “Salve, in cosa posso esservi utile?

D. Vorremmo saperne di più su questa scuola di meditazione Sumarah. Da quel poco che ho letto sulla mia guida turistica mi sono sentito attratto. Ho sentito dire che tu pratichi e insegni questo tipo di meditazione. Ma si tratta poi di una scuola?

R. Sì e no. Si tratta di una scuola perché in effetti la maggioranza delle persone vengono per imparare qualche cosa, d’altro canto, quello che si finisce coll’imparare è raramente ciò che si è venuti a studiare, anzi spesso è proprio il suo opposto. Infatti, in un certo senso, Sumarah è una tecnica per disimparare. Sumarah significa resa incondizionata, abbandono totale. Una delle prime cose che viene ‘insegnata’ è quella di arrendersi al proprio essere nella sua totalità, quindi di accettare come si è in ogni istante e in ogni parte, nel bene e nel male. Per esempio chi viene qui motivato dal bisogno dovrà accettare ciò che gli manca, chi è spinto dal desiderio dovrà imparare la rinuncia, chi arriva per superare il suo dolore dovrà, prima di tutto, riconoscere e ammettere il proprio attaccamento a esso. E così via. Paradossalmente si può dire che il primo insegnamento di Sumarah è quello di abbandonare il desiderio di imparare e rilassarsi nel proprio essere, così com’è.

D. Ho sentito dire che nella pratica Sumarah non ci sono regole o tecniche precise da seguire o da utilizzare come ‘ancore’. Ciò non mi sembra possibile.

R. In effetti la pratica Sumarah non si basa su alcuna forma o tecnica precisa. In altri tipi di meditazione viene richiesto di mantenere una certa posizione del corpo, un determinato modo di respirare, un qualche punto su cui concentrarsi. In Sumarah ciò a cui principalmente si dà importanza è la realtà di dove si è. L'idea implicita in ciò è che quello che si raggiungerebbe usando delle tecniche specifiche di supporto non sarebbe, per così dire, completamente 'originario'. Sumarah si focalizza principalmente sulla purezza dell’esperienza in sé, nella convinzione che sia sempre meglio aspettare a fare il passo quando si è davvero pronti. Allora lo si farà quasi senza accorgersene, perché esso sarà diventato inevitabile.

D. In questo modo il processo di apprendimento può essere molto lungo...

R. Sì, è vero. Questo è in un certo senso il punto debole della pratica Sumarah, ma, come dice spesso il mio maestro, dieci anni a noi sembrano molti, ma, messi in relazione al processo nella sua totalità, sono pochissimi.

D. Se ho capito bene hai detto che la prima cosa da imparare è quella di rilassarsi rispetto ai propri desideri, quindi anche rispetto al desiderio di imparare e che prima di imparare, bisogna disimparare. Ma che cosa bisogna disimparare?

R. Quello che cerchiamo di fare è di ricominciare da capo, fare tabula rasa. Dimenticare, perdonare. Dire non vale, si ricomincia da zero, come fanno i bambini nei loro giochi quando è successo un pasticcio. Ecco, dobbiamo in un certo senso ritornare bambini. Certo non è facile recuperare la purezza originaria, tuttavia, senza toglierci questi occhiali dalle lenti colorate che portiamo da anni, il più delle volte senza neppure rendercene conto, non c’è molta speranza di vedere i colori per quelli che sono.

D. Se disimparare è la prima cosa da imparare, qual è la seconda?

R. Volendo essere strettamente fedele alla filosofia e alla pratica Sumarah, non dovrei rispondere a questa domanda. Infatti, se l’unica teoria valida è quella del ‘qui e ora’, non è di nessuna utilità parlare del futuro. Essendo tu un principiante, dovremmo parlare solo del principio e non perderci in vaghe possibilità future che potrebbero essere fuorvianti.

D. Se me ne assumo la responsabilità potremmo fare un'eccezione? Purtroppo staremo a Solo solo due giorni.

R. Beh, sai, diciassette anni fa, la prima volta che venni a Solo, avevo solo un giorno e una notte ... Comunque certo, facciamo un’eccezione. Ho una personale passione per le eccezioni!

Una volta stabilito questo nuovo atteggiamento interiore e l’intenzione di ricominciare da capo, la pratica è quella del rilassamento profondo, prima di tutto a livello fisico, poi emotivo e quindi mentale. Il secondo insegnamento, ma anche questo è solo un modo di dire, sarà quello di imparare a mantenere il grado di rilassamento ottenuto nelle sedute di meditazione, quindi in condizioni in un certo senso ideali, anche durante le nostre attività quotidiane. E’ ciò che in Sumarah viene definito sujud harian (meditazione ‘quotidiana’), in contrapposizione al sujud khusus (meditazione ‘speciale’), che è invece il momento vero e proprio in cui ci si siede a meditare. Idealmente lo stato di meditazione dovrebbe essere un continuum. La realtà è che il divario tra le due meditazioni è solitamente grande, spesso un vero e proprio abisso. Noi pratichiamo per ridurre questo abisso.

D. Mi sembra che quello che dici implichi una vigilanza continua, un continuo controllo della propria condizione, quindi, in un certo senso, una tensione continua. Non è questa una contraddizione rispetto alla pratica di abbandono totale di cui parlavi prima?

R. I giavanesi dicono: "Ya ngono, ning ojo ngono’", che significa: 'sì è così, però non fare così.'

La linea di demarcazione tra positivo e negativo, tra il bene e il male, non solo è sottilissima, ma l’uno già contiene in sé l’altro, proprio come nel simbolo taoista di yin e yang. E’ estremamente difficile definire una sensazione, descrivere uno stato senza averlo sperimentato almeno una volta. Vi è una profonda differenza tra una condizione di controllo teso e all'erta e quella della consapevolezza rilassata e attenta. La meditazione quotidiana ci allena a uno stato di presenza e consapevolezza che unito a una profonda accettazione della nostra condizione, ci permette anche di superare la tensione causata dell’anelito al cambiamento. Ma, appunto, è difficile parlare di uno stato dell’essere. Immagina una persona che, non conoscendo il sapore del salato, ti chiedesse com’è.

Tu potresti probabilmente dirle come non è. Salato non è dolce, non è amaro, non è neppure aspro ... ma in questo modo la persona in questione non avrà le idee molto più chiare. L’unica soluzione è che assaggi un po’ di sale. Solo allora vedrai la luce della comprensione accendersi nei suoi occhi. A quel punto non vi saranno più dubbi e la persona saprà per sempre cosa si intende per salato. Basta anche una sola volta.

Questo è solo un piccolo e semplice esempio rispetto a una sensazione fisica, ma lo stesso vale per tutto il mondo del sentire, non solo fisico.

Le esperienze mistiche sono un po’ tutte come questa del sale: incomprensibili senza l’esperienza diretta.

D. Quindi quello che mi stai dicendo è che non puoi spiegarmi ciò che a me è sembrata una contraddizione, finché non ne avrò fatto esperienza diretta.

R. Beh, diciamo che non sarà comunque mai una risposta completa. Quello a cui alludevo quando parlavo di ridurre la distanza tra meditazione ‘speciale’ e meditazione ‘quotidiana’ è una condizione di consapevolezza che non risiede nella mente, ma piuttosto nell’universo del sentire, quello che i giavanesi definiscono rasa, una parola che sentirai nominare molto spesso da queste parti.

Si tratta di una condizione di rilassata consapevolezza in cui alla fine colui che guarda e ciò che è guardato non sono più separati. La pratica continua del rilassamento mentale ed emotivo crea a poco a poco una nuova abitudine dell’essere.

Da ciò nasce il cambiamento. Ma, come si diceva prima, queste sono solo parole.

Pak Wondo ha spesso definito Sumarah 'ilmu kira-kira', ossia la 'scienza del circa così'. E’ scienza perché la conoscenza che ne deriva viene avvertita come inconfutabile da chi ne fa esperienza diretta e tuttavia ‘circa così’, perché in Sumarah viene sempre lasciato spazio al beneficio del dubbio. La saggezza del mungkin (forse) è tenuta qui in alta considerazione e Pak Wondo parla spesso dell'importanza di saper sempre 'stare seduti nel mungkin '.

D. Finora non hai ancora parlato di illuminazione. Non è questo lo scopo ultimo della meditazione?

R. L’illuminazione caso mai può essere la finalità di una vita o di più vite. Secondo Sumarah il fatto che in questa vita si raggiunga o meno l'illuminazione dipende più dal punto in cui siamo arrivati nel cammino, che dall'intensità della nostra pratica o, meglio, diciamo che i due elementi sono ugualmente importanti.

Comunque in effetti in Sumarah non si parla molto spesso dell’illuminazione e in particolare Pak Wondo, il mio maestro, non ne parla quasi mai. Semmai, si parla più spesso di momenti di luce (Pepadangan), visti come doni divini, come grazia.

Inoltre secondo Sumarah, l’illuminazione non è quel salto di coscienza di cui parlano altre tradizioni, quello stato che uno volta raggiunto non si perde più. Illuminazione, per Sumarah, è più che altro un processo fatto di piccoli e graduali momenti di apertura dell’orizzonte. In questo senso penso sia più appropriato parlare di ampliamento della coscienza.

Vi sono infiniti livelli di comprensione e di sperimentazione dei problemi e dei nodi che incontriamo nella nostra evoluzione. Essi non solo possono essere più o meno profondi, ma anche più o meno totali, coinvolgere tutte le parti dell’essere o solo alcune.

La comprensione a cui siamo stati abituati ed educati è quella intellettuale e razionale che, benché profonda, non ha niente a che vedere con l’illuminazione, né tanto meno ha il potere di trasformarci. Poiché è parziale non può influenzare l’interezza del nostro essere. Una comprensione totale coinvolge, per esempio, anche il corpo e la dimensione emotiva-sensitiva del rasa. Quando sperimentata in modo completo e diretto, ha un potere tremendo, fa tremare il corpo, piangere il cuore e girare la testa. Essa produce cambiamento, perché ci ha portato a un tipo di coscienza che va al di là della ragione. Da qualche parte di noi si è fatta luce. Illuminazione letteralmente significa ‘fare luce su’, quindi rendere manifesto, portare alla luce, portare a conoscenza. Il cammino, quando diventa più luminoso, diventa anche più facile. Forse, quando si sarà fatta luce in tutto il nostro essere, allora si potrà dire che esso è illuminato. Io, personalmente, penso di essere ancora molto lontana da quel punto della storia, per cui non te la posso raccontare...e poi forse non sarà mai uguale per tutti.

D. A ogni risposta che dai, mi crolla una delle aspettative che avevo rispetto a ciò che avrei potuto raggiungere con la meditazione. Pensavo di tornare un’altra volta e fermarmi per un periodo di quindici giorni a studiare Sumarah. Mi sembrava già tanto. In Occidente un seminario di quindici giorni è considerato già molto intenso...Comincio a rendermi conto che qui i tempi sono molto più lunghi e i modi parecchio diversi.

Ma non c’è proprio speranza di potere imparare qualche cosa in un periodo breve?

R: Certo! Tutto è possibile e niente è certo. I tempi nella pratica spirituale non sono quelli stabiliti dalla legge umana. La ricerca della verità ha un altro calendario, tutto suo. Sai, come in quella storia dove Gesù, atteso da giorni da centinaia di persone che volevano essere miracolate, chiama l’ultimo arrivato e opera su di lui il miracolo.

Cosa risponde alle proteste della folla? Che costui era pronto... la sua fede matura. Il suo tempo era giunto. Lo stesso vale per la pratica della meditazione. Se sei arrivato alla riva del fiume, la meditazione ti può aiutare ad attraversarlo anche in un sol balzo. Se sei a cento metri dal fiume ti può aiutare ad arrivare sulla sponda e a non girare dalla parte sbagliata all’ultimo momento. Se sei a mille miglia dal fiume, sperduto nella foresta, la meditazione ti può dare conforto e rassicurarti, cantandoti quella antica canzone degli Indiani d'America: “Se ti sei perso nella foresta non avere paura, la foresta sa dove sei”. La pratica quindi ti può sempre fare apprezzare a che punto sei e magari aiutarti a sentire il rumore del fiume in lontananza. Ecco perché la stessa strada può sembrare così corta e così lunga....

Va infine tenuto in considerazione che il cammino verso la consapevolezza e la maturità spirituale non è un grafico necessariamente ascendente. Al contrario è una linea ondulata, a tratti spessa, a tratti sottile, a volte con piccole onde brevi, a volte con onde da maremoto. Il processo non è né prevedibile, né irreversibile, né arrestabile.

Pak Wondo fa l’esempio dell’alfabeto e dice che l’alfabeto spirituale non va da A a B e poi da B a C e da C a D e così via, ma da A a B e poi da A a B e a C e poi da A a B, a C e a D, eccetera. Ossia si riparte sempre dall’inizio. A volte, dopo molti anni di pratica, ci si può dimenticare di questo ed è proprio allora che si rischia di fare un tremendo scivolone che ci riporta di forza ad A, con tutti i lividi del caso. Pak Wondo spesso dice che più in alto si va più in basso si cade. Bisogna fare molta attenzione quando si ha l’illusione di essere vicini alla vetta. Non c’è niente di più pericoloso che credersi arrivati.

E’ importante ricordarsi sempre della base: c’è continuamente un inizio, proprio perché c’è continuamente un presente. Probabilmente il contenuto di ogni inizio sarà diverso, ma la qualità di inizio è la stessa. Un po’ come a scuola. E’ più principiante uno che fa la prima elementare o la prima media? Non c’è differenza, ognuno ha il suo principio e le difficoltà del primo non sono inferiori a quelle del secondo. Sono solo proporzionali all'età.

Mi piace parlare di Sumarah con persone che come voi non ne sanno assolutamente nulla. Mi riporta all’inizio, alla base e mi costringe a non dare nulla per scontato né con voi né con me stessa. E poi cosa vuol dire essere principianti ? Quale sarebbe mai l’inizio? In realtà non esiste un punto di partenza, o meglio esso non è fisso, la sua posizione sul cerchio cambia di continuo. Forse ci sono molti punti di partenza e probabilmente non esiste neppure un punto di arrivo, un traguardo...

Sono cose, queste, di cui è meglio non parlare troppo. Quando la guardi in faccia troppo a lungo, la verità scompare.

D. In quasi tutte le religioni o le correnti mistiche, s’insegna a fare il bene, a essere sempre generosi con gli altri, si predicano il perdono e la benevolenza, l’altruismo e lo spirito di sacrificio. Questi insegnamenti sono presenti anche nella pratica Sumarah?

R. Noto una punta di ironia nel tono della tua domanda e credo di intuire cosa vi sia dietro: una serie di delusioni forse dovute all’idealismo (e all’ipocrisia) che puoi avere incontrato nel cosiddetto ‘mondo dello spirito’ in Occidente. In Sumarah la principale ‘materia’ di studio e di esercitazione è la realtà, in tutti i suoi aspetti, da quelli più ordinari a quelli più straordinari. I principali strumenti di lavoro sono onestà e accettazione. Onestà con se stessi e accettazione della presenza di positivo e negativo, sia sul piano microcosmico che macrocosmico. Positivo e negativo in verità sono una coppia fissa, sono sempre insieme, ovunque e continuamente. La vera giustizia è imparare la neutralità di ‘essere’ in entrambi. In un certo senso non c’è scelta. Essere nel bene è bene, essere nel meglio è un buon lavoro, ma ciò più che un insegnamento è un principio e come tale lì rimane, all'inizio, come punto di riferimento. Inoltre si sa che il meglio è nemico del bene. Invece l’insegnamento e di conseguenza la pratica, consistono piuttosto nel riconoscere il bene e il male, che spesso se ne vanno in giro camuffati, scindendoli dalle loro temporanee manifestazioni. Positivo e negativo si celano, seducono, ingannano, ma il nostro 'piccolo cuore' (hati kecil), come lo chiamano i giavanesi, in realtà saprebbe sempre riconoscerli per quello che essi sono, se solo noi lo lasciassimo parlare e lo ascoltassimo.

Attraverso la pratica del rilassamento profondo noi creiamo il silenzio necessario per sentire la voce del nostro maestro interiore che risiede nel ‘piccolo cuore’ e che sempre sa la verità.

Diventare coraggiosi esploratori del cuore e della mente: questo a me sembra non solo una nobile pratica ricca di insegnamenti, ma anche l’avventura più affascinante.

D. Lo so che è una domanda stupida, ma più o meno quanto tempo di pratica ci vuole per entrare in contatto con il proprio maestro interiore?

R. Appunto come hai detto, questa è una domanda sciocca. Allora perché l’hai fatta?

D. Non saprei esattamente. Immagino così tanto per... Non si sa mai.

R. Forse sei un po’ stanco, non sapevi più cosa chiedere o non avevi più nulla da chiedere. Questa domanda è stata un atto di pigrizia, un atto contro il tuo maestro interiore che, in realtà, già sapeva la risposta e già te l’aveva comunicata. In questo modo tu l’hai, per così dire, un po’ offeso e sicuramente trascurato. Essere ignoranti non è una colpa, far finta di esserlo sì. Questo naturalmente è solo un piccolo esempio, niente di importante, forse, ma è significativo ed è venuto proprio a proposito. Nella pratica Sumarah si impara a dare uguale importanza agli avvenimenti grandi e piccoli, positivi e negativi. Ci sono in noi tantissime abitudini che ci incatenano e ci appesantiscono.

Il far finta di non capire o di non sapere è una di quelle e, se non ci si fa attenzione, a lungo andare si finisce col diventare davvero un po’ ottusi. Spesso non ci rendiamo conto di quanto certi atteggiamenti mentali a cui siamo affezionati ci schiavizzino e impediscano la nostra liberazione. Accorgersene è un atto di consapevolezza.

La realtà è continuo cambiamento. C’è un tempo per stare e uno per andare; c’è un tempo per parlare e uno per tacere.

D. Ho l’impressione che stiamo andando un po’ troppo lontani. Non riesco più a seguirti.

R. Hai ragione. Il tuo maestro interiore questa volta è stato più attento del mio.

D. Un’ultima domanda. Che parte ha il guru nell’insegnamento di Sumarah?

R. In Sumarah non si parla mai di guru (maestro) ma di pamong, che significa guida.

La scelta di questo termine è dovuta al fatto che il cosiddetto maestro non ha il compito di insegnarti qualche cosa che tu non sai e lui sì, bensì quello di guidarti su una strada che è la tua, ma ancora un po’ buia. Il pamong ti accompagna, facendoti luce, a volte prendendoti per mano, altre volte dandoti una spinta.

D. Questo per il maestro ‘esterno’. E quello interiore, quale è il suo compito ?

R: Di fondo è davvero una questione di silenzio. Più saremo in grado di fare silenzio dentro di noi, più spesso udiremo la voce del guru sejati (il vero maestro, la guida interiore). Poi più spesso le obbediremo, più spesso essa ci parlerà. La prova finale sarà sempre e comunque nella realtà, che è il nostro campo di battaglia e anche il nostro laboratorio.

D: Se dovessi definire con due parole la pratica e l’insegnamento Sumarah, come lo definiresti ?

R: Seni hidup, arte di vivere

D: Mi piace. Grazie, è stato molto importante per me questo pomeriggio. E anche piacevole.

R: Anche per me. Grazie a voi.

(Laura Romano “Sumarah - il risveglio del maestro interiore ” Ubaldini 1999 pp. 54-62)